mercoledì 18 novembre 2015

PRESENTAZIONE AD ENNA DEL LIBRO "COSI MAI VISTI... ETC"


INTERVISTA A "LA SICILIA" PER LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO AD ENNA

INTERVISTA ALL’AVV. EUGENIO AMARADIO PER “LA SICILIA” IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DI "COSI MAI VISTI ..." AD ENNA


Avvocato, ci vuole narrare come è venuto a conoscenza dell’episodio storico da cui ha tratto il saggio
intitolato “La Rivolta di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania del 1627”?

La Città di Castrogiovanni, oggi Enna, si rivoltò nel 1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo. Questo episodio storico era sconosciuto ai più. Ne venni a conoscenza leggendo la Storia di Enna di Paolo Vetri che divulgai. Avendo anche appreso così che esisteva un coevo poemetto manoscritto in rima siciliana di tale Fra Gieronimo Pane e Vino e che questo documento era custodito presso la Biblioteca Comunale di Enna, ne ottenni copia, lo trascrissi e interpretai.
Seppi che il Vescovo Innocenzo era venuto a Castrogiovanni in visita pastorale  per la “correzione dei costumi” e che lo stesso aveva indetto una nuova inquisizione su tutti coloro i quali “s’havessero pratticato prima del suo sponsalizio stante detto Vescovo haver stabilito una gravosa pena pecuniaria” che molti non pagavano per cui “prendevano le moglie, stante gli huomini si ritiravano nelle campagne e le carceravano … con operando la Corte molte discolerie …” per cui il popolo si ribellò.    
Continuate le ricerche, cominciai a scrivere una esposizione sintetica dei fatti, con alcune note per inquadrare il periodo storico e con qualche riferimento anche agli effetti del Concilio di Trento sugli usi e costumi delle nostre popolazioni.
Il Maestro Bruno Caruso si entusiasmò della storia e realizzò una serie di magnifici disegni che trasformarono il mio scritto in un’opera d’arte. Così mi fu facile pubblicare nel 2006 il mio lavoro intitolandolo “La Ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania”. Tale opera venne apprezzata dal Prof. Giuseppe Giarrizzo della Facoltà di Lettere dell'Università di Catania che ne sollecitò la presentazione ai Benedettini. Tra i vari riconoscimenti non posso non citare una cortesissima nota del Prof. Adriano Prosperi della Normale di Pisa.

Poi, come è arrivato al romanzo storico relativo intitolato “Cosi mai visti né ‘ntisi nella Sicila del ‘600”?

Già allora, contestualmente alla stesura di quell'opera, mi proposi di allargare la trattazione dell'argomento alternando, a singoli episodi della stessa, la narrazione di un romanzo contenente un'esposizione di fatti e avvenimenti, il più delle volte verosimili e attinenti a quel periodo che ho intitolato “Cosi mai visti né ‘ntisi” traendolo da un verso del poemetto di Fra Gieronomo Pane e Vino di cui ho detto. Ho fatto poi interagire dei personaggi reali con altri tratti dai ricordi e dalle esperienze di una vita al fine di rendere allettante ai più la lettura e la conoscenza di un episodio storico che mi sembra possa rappresentare anche la nostra società contemporanea con tutti i suoi pregi e difetti.
Insieme al Vescovo, che aleggia sull’intero contesto, ho fatto rivivere gli uomini della sua corte e della sua guardia vescovile. Insieme ai Giurati e ai cittadini, ai nobili e ai popolani del tempo, ho fatto rinascere loro stessi e le loro famiglie con i loro problemi, amori e odi, le loro angustie, preoccupazioni e gioie.
Tante storie si intersecano: la ribellione fa da filo conduttore, ma poi se ne distinguono altre tra cui un amore contrastato e un omicidio con relative indagini, quasi un giallo.

Ho affrontato come tema conduttore soltanto la prima parte del mio saggio precedente e precisamente quella concernente la ribellione. Ho tralasciato invece la seconda parte relativa alla ripresa della lite tra Castrogiovanni e il Vescovo sino alla bolla del Papa Urbano VIII del 1632 che stabilì, riconoscendo le buone ragioni degli Ennesi, che la Città non dipendesse più dal Vescovo di Catania, ma passasse sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo Metropolita di Monreale.

martedì 3 novembre 2015

INCIPIT DEL 1° CAP. DEL ROMANZO "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI"

CAP. 1°


Viscuvu in Catania ci stetti
Innoccenziu Massimu Romanu
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E’ con questi stessi primi versi che comincia un poemetto intitolato "Relazione veridica di tutto quello che successe nella ribellione contro il Vescovo Innocenzo Massimo Romano" composto da tale Fra Gieronimo Pane e Vino.
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L’annu milli seicentu vinti setti
Nusceru a visitari li Citati
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Ma fici cosi mai visti, ne intisi
Processava Parrini e Maritati
Preni e lattanti nelli fossi misi.
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Padre Giovanni dei Cappuccini, in una sua opera sulla storia di Enna, ci narra che il Vescovo Innocenzo era venuto ad Enna per la correzione dei costumi ed, essendo questi "avido del danaro e la sua Corte un puoco libertina, fece fare nuova inquisizione su tutti coloro li quali s'havevano contratti in matrimonio e s'havessero pratticato prima del suo sponsalizio, stante detto Vescovo haver stabilito la pena pecuniaria e, trovando che erano trasgressori molti Castrogiovannesi, prendevano le moglie, stante l'huomini contrattati con le suddette si ritiravano nelle campagne e parte li carceravano nel pubblico Castello e parte nel Palazzo, con operando la Corte molte discolerie..."


Angilo arrancava dietro le due mule che, sovraccariche di paglia, s'inerpicavano lungo il ripido sentiero della Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più rapidamente della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora addietro con il loro stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il sole andava tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea dell'altopiano.
Di tanto in tanto, allorché egli non riusciva a tenere il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una giornata di duro lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva tirare nella salita. Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad affaticarsi eccessivamente, lasciava la presa e ricominciava a seguirla stancamente, cercando di non farsi distanziare.
Spesso si girava a guardare se suo fratello Mariano, che seguiva con altre due mule altrettanto cariche, tenesse il suo passo. Con una grossa vociata, lo incitava a non restare troppo indietro.
Sapeva bene che, dati i brutti tempi che correvano, bisognava rimanere sempre vicini per potersi dare subito manforte in caso di necessità.
D'altro canto era anche ben cosciente che il carico delle mule non era composto soltanto di paglia, come all'apparenza sembrava. Sotto di essa avevano nascosto una bisaccia di farina per ogni mula. Questa era una buona parte di quella necessaria per poter dar da mangiare alla famiglia per alcuni mesi. Avevano ritirato la farina, passando poco prima per il Vallone dei Mulini, da massaro Mattio il mugnaio presso cui avevano depositato a suo tempo il grano dopo la trebbiatura. La nascondevano per evitare sia ogni tentazione ai malviventi che infestavano le strade sia, se possibile, di pagare il dazio all'ingresso della Città. Vero che conoscevano da sempre i dazieri e che questi, il più delle volte, erano stati comprensivi con loro per via di qualche regaluccio personale: ora un galletto, ora una bottiglia di vino, ora quello che si poteva. Tuttavia era meglio non fidarsi, non dare nell'occhio e nascondere tutto ciò che poteva essere desiderato da altri.
Il sole era tramontato del tutto quando arrivarono sul ciglio della scarpata e si avvicinarono ad una delle porte del paese.
I dazieri stavano controllando una lunga fila di muli che li avevano preceduti. Uno di loro fece cenno di aspettare.
Mariano gli si avvicinò e disse ad alta voce che portavano solo paglia e chiese se potessero passare. Poi sussurrò che l’indomani sarebbero ripassati e si sarebbero fermati per salutarli.  E allora questi gli fece cenno di proseguire.
Si avviarono quindi lungo il pianoro verso il quartiere di Fundrisi e si inoltrarono tra i vicoli, che era già buio.
Arrivati nei pressi della loro casa, sentirono un notevole trambusto. Cosa assolutamente inusuale. Si affrettarono a legare le mule alla meglio e, senza scaricarle come avevano sempre fatto, si precipitarono all'interno.
Nella stanza grande, appena rischiarata da un paio di lumi ad olio, trovarono riunita tutta la famiglia e, cosa strana e quindi preoccupante, videro seduto al centro lo zio Peppino, fratellastro della madre, persona ritenuta di rispittu.
Seppero subito che era venuto il Messo del Vescovo per notificare una multa a Mariano. Non capirono bene il perché. Le loro insistenti domande provocarono diverse e contrastanti versioni del fatto.
Si resero conto, infine, che la multa doveva essere pagata poiché Mariano aveva avuto “rapporti carnali” con sua moglie Filippa, prima che fosse stato celebrato il matrimonio, quindi in stato di peccato.
La cosa risultò assolutamente incomprensibile.
Da che mondo è mondo e come tutti gli astanti affermavano, i fidanzati che avessero stipulato una formale promessa di matrimonio erano sostanzialmente autorizzati a frequentarsi. Veniva anche tollerato che avessero qualche … rapporto, secondo gli usi e costumi del tempo e la morale corrente.
I casi di figli nati dopo il fidanzamento e prima del matrimonio erano innumerevoli e ritenuti da sempre perfettamente legittimi. La somma che si pretendeva venisse pagata era enorme e non c'era possibilità alcuna che la si potesse procurare.
Il vociare si fece di nuovo indescrivibile. Le mule vennero dimenticate cariche. Tutti intervenivano a proposito e a sproposito. Chi suggeriva di scappare con tutta la famiglia in campagna o, meglio, nelle montagne. Chi sussurrava che sarebbe stato forse opportuno tentare di corrompere qualcuno che . . . aveva le mani in pasta. Chi, ancora, consigliava di non pagare e, in caso di necessità, di farsi giustizia con le proprie mani.
All'improvviso tuonò la voce roboante dello zio Peppino e tutti tacquero. Suggerì di andare a palazzo a sentire cosa consigliasse don Filadelfo, ché era persona saggia e comprensiva e poi . . . si sarebbe visto.
Quelle poche parole troncarono ogni discussione. Angilo e Mariano si rasserenarono e scaricarono subito le mule. Si lavarono poi da capo a piedi, indossarono il vestito della festa e, in compagnia dello zio Peppino, si avviarono verso il palazzo, nel centro del paese, che era già notte.
Don Filadelfo, che era andato a letto, sentendo che i fratelli erano accompagnati dallo zio Peppino, mugugnando si alzò e li ricevette nell'ingresso.
Sedutisi in cerchio, non sapevano come cominciare il discorso. Stavano zitti, girando e rigirando i berretti tra le mani. Zio Peppino infine ruppe il ghiaccio e, dopo i convenevoli dettati dal rispetto, espose il problema. Seguì ancora un lungo silenzio. Don Filadelfo si schiarì la voce, tossì alcune volte e disse che questa inquisizione che aveva iniziato il Vescovo era certamente ingiusta. Doveva pur esserci un qualche rimedio. In fondo, solo questione di soldi era. Suggerì poi a Mariano, per evitare guai, di non farsi trovare in paese sino a quando il problema non fosse stato chiarito. Filippa e il bambino sarebbero potuti restare in casa. Da noi donne e bambini non si toccano; nessuno ne avrebbe il coraggio.
Tranquillizzati, gli ospiti si alzarono e, profondendosi in ringraziamenti e ossequi, tornarono a casa.
Lungo la strada i tre stettero in silenzio. Mariano azzardò poi che forse sarebbe stato meglio che anche Filippa e il bambino andassero in campagna con lui. Ma Zio Peppino fu categorico. Se don Filadelfo aveva detto così, così si doveva fare. Vuol dire che sapeva.
Nessuno osò discutere ancora, così si doveva fare e così si fece.


Quella era una di quelle rare notti che erano afose anche a Castrogiovanni, sull'altopiano. Quando ciò accadeva, il clima estivo diveniva più intollerabile che alla marina.
Don Filadelfo, che soffriva particolarmente il caldo, non riuscì ad addormentarsi. Si girava e rigirava nel letto e sentiva quasi di odiare la Principessa, come ancora chiamava Rosalia, che accanto a lui invece dormiva russando sonoramente.  Egli rimuginò a lungo su quanto era accaduto nella giornata pensando soprattutto alla visita che aveva ricevuto. Conosceva già da qualche tempo il problema.
Il Vescovo era venuto da più di un mese in visita pastorale. Subito aveva emanato la bolla con cui imponeva una forte pena pecuniaria nei confronti di quelli che avevano convissuto o convivevano in “stato di peccato”, in quanto non sposati. Sembrava che avesse invocato l'applicazione di un editto del Concilio di Trento che vietava ogni rapporto al di fuori del matrimonio. Poiché nessuno aveva mai saputo alcunché di tale legge, tutti si erano convinti che fosse solo un espediente per fare soldi.  E poi quello “stato di peccato”, che veniva sbandierato come uno spauracchio, suscitava le maggiori reazioni.
La sua coscienza si ribellò. Come poteva essere considerato stato di peccato una convivenza accettata e favorita da sempre dalla consuetudine secolare delle famiglie di combinare i matrimoni dei figli sin dalla più tenera infanzia? Come potevano essere considerati in stato di peccato egli stesso e Rosalia per avere convissuto per decenni?
Non l’aveva proprio potuta sposare Rosalia, prima perché aveva già marito e poi, quando era rimasta vedova, per la netta opposizione dei suoi.
Pertanto era stato emarginato oltre che dalla sua stessa famiglia anche dalla società cittadina. Era stato poi anche estromesso, poco alla volta, dall'amministrazione e dalla successione dei più importanti beni familiari.
Avevano cercato di coartare la sua volontà per costringerlo a rompere questo legame ritenuto non consono alla sua dignità. E quanto aveva sofferto lui! Ma non si era mai arreso.
Era stato criticato da tutti sin dall'inizio, quando ancora imberbe aveva cominciato la sua relazione con questa donna che godeva di una pessima fama. Veniva ritenuta addirittura una pervertita posseduta dal diavolo. Infatti, nonostante fosse sposata con il Principe di Roccalumera, di molti anni più anziano di lei, aveva avuto prima e dopo il matrimonio innumerevoli relazioni adulterine e, fatto veramente incredibile, con altre donne, con bambini e, si sussurrava, anche con animali.
Egli aveva saputo tutto e tuttavia non aveva potuto resisterle. 
La loro relazione era iniziata all’improvviso, quasi per gioco; ambedue erano stati travolti da una incredibile e travolgente passione.
Ricordò ancora, con immutata libidine, il loro primo incontro.
Era l’inizio di un’estate di tanti, tanti anni addietro. Si stava recando in campagna seguito da un suo famiglio per andare a sovraintendere alla raccolta del grano. Nonostante fosse ancora prima mattina, il caldo era già intenso. Si era liberato di buona parte degli indumenti superflui, restando a torso nudo e coperto da un grosso cappellaccio a larghe tese che lo riparava dal sole.
Procedendo per un viottolo secondario, che abitualmente percorreva per abbreviare il suo cammino, aveva sentito delle grida provenienti da un casolare poco distante. Rallentato il passo della cavalla per vedere meglio cosa stesse accadendo, aveva notato una donna discinta che usciva dall’abituro inseguita da un uomo seminudo. Costei, con un inusitato balzo felino, era riuscita a montare su un bellissimo cavallo nero che pascolava nelle vicinanze. Si era poi allontanata al galoppo sfrenato dirigendosi verso di lui, mentre l’uomo, che non aveva potuto fermarla, si era subito ritirato in casa.
Sopraggiunta nel viottolo dove egli si era intanto fermato, aveva bloccato il suo cavallo e lo aveva affiancato al suo. Dopo averlo scrutato da capo a piedi, con un accattivante sorriso, aveva fatto avvicinare di più il suo cavallo. Le loro gambe erano arrivate a sfiorarsi e poi a toccarsi ancora. Egli era stato preso da un nodo alla gola. La donna gli era apparsa subito bellissima. Con voce rauca e balbettante, le aveva poi chiesto il suo nome e cosa le fosse accaduto. Aveva appreso così che era la Principessa di Roccalumera e che quell’uomo era uno sciocco impotente che non aveva saputo darle quanto il suo dovere gli avrebbe imposto.
Don Filadelfo era rimasto sbalordito, non sapeva proprio cosa fare. Conosceva per fama la Principessa, sapeva delle sue frequentazioni avventurose di cui tanto si parlava, ma non avrebbe mai immaginato tanto.
La Principessa allora, senza remora alcuna, tastandogli i muscoli, gli aveva sussurrato che certamente egli avrebbe saputo fare meglio il suo dovere di maschio.
Don Filadelfo, sconvolto più che meravigliato, aveva licenziato subito il famiglio che lo accompagnava. Era sceso da cavallo e l’aveva aiutata a fare altrettanto. Quindi l’aveva guidata in un anfratto antistante dove aveva subito fatto il suo dovere, adeguatamente ricambiato con una foga esorbitante e con delle tecniche stravolgenti e sconosciute.                  
Nei giorni successivi, gli incontri-scontri tra i due si erano susseguiti con una frequenza e un ritmo incessanti, con evidente reciproca soddisfazione.
Quando il loro rapporto si fu consolidato, era stata la donna stessa che nottetempo, abbandonata la sua casa, si era trasferita nella masseria dove egli risiedeva abitualmente.
Fortunatamente il Principe, oramai vecchio, non aveva più alcun interesse né a tenersi quella moglie e nemmeno a vendicarsi. Si era liberato di quel legame che da tempo era divenuto un fardello insopportabile.
Nei primi tempi egli era stato tacitamente approvato e invidiato da tutti. La sua relazione veniva considerata una bellissima avventura giovanile. Si riteneva, infatti, che quel legame sarebbe presto cessato. Era notorio quanto la Principessa fosse volubile e desiderosa di sempre nuove esperienze. Egli avrebbe trovato, o forse meglio, gli avrebbero trovato una moglie illibata, di sani principi morali e religiosi, di buona famiglia e con una cospicua dote, come era nelle tradizioni del suo ceto.
Con il passare degli anni erano cominciati i veri problemi, quando quello che era stato previsto da tutti non si era avverato. Aveva ignorato e addirittura rifiutato tutti i possibili partiti che gli erano stati prospettati in matrimonio. Mentre Rosalia, contro ogni previsione, non lo aveva più lasciato per approdare in altri lidi, come aveva sempre fatto anche perché, avanzando negli anni, si era stancata della sua vita tempestosa e aveva deciso di porvi rimedio accasandosi.
Invero egli si era poi intestardito a non voler modificare questo stato di fatto. Dapprima per pigrizia, poi per abitudine più che per amore e, infine, per ribellarsi alle imposizioni altrui. Rosalia invece si era acquietata, quasi adagiata, in questa relazione serena e appagante.
Tuttavia non avevano potuto legalizzare il loro rapporto per il preesistente matrimonio.
Con l’andare del tempo, la loro situazione era però peggiorata sempre di più.
Il padre di lui, perduta ogni speranza di modificare le cose, solo dopo molti anni gli aveva fatto donazione, sia ben inteso con riserva di usufrutto, di una pur modesta parte limitrofa del palazzo di famiglia, dove sarebbe potuto andare ad abitare con Rosalia. Aveva però preteso che venisse eretto un muro divisorio in un certo terrazzo per evitare di vedere dda fimmina. Una sua sorella, dopo la morte del Principe, aveva insistito sempre più pervicacemente perché quello stato di peccato venisse sanato con un matrimonio. Egli aveva ancora rifiutato. Si era reso conto che ciò avrebbe signifi­-      cato rompere definitivamente i rapporti con il padre e con la famiglia e, forse anche, con il resto dei parenti e degli amici.
Con una donna come quella si poteva anche convivere per qualche tempo, ma mai a lungo e definitivamente: a maggior ragione non la si poteva proprio sposare.
Egli aveva, infine, ceduto alle pressioni della sorella e, per cercare di salvare il salvabile, aveva optato per un matrimonio segreto che, proprio perché segreto, non aveva risolto i suoi problemi.

Ora, con la venuta del Vescovo Innocenzo, tutti i guai, che con il tempo sembravano attenuati, erano tornati di colpo a galla.    

RECENSIONE DI GASPARE AGNELLO SU "COSI MAI VISTI NE' 'NTISI"

Recensione di Gaspere Agnello su “Cosi mai visti né ‘ntisi nella Sicilia del ‘600” di Eugenio Amaradio


Eugenio Amaradio è un noto Avvocato di Enna che si è già cimentato con la letteratura avendo già pubblicato nel 2006, con la Lussografica, “La ribellione di Castrogiovanni contro il Vescovo di Catania” con le pregevoli  illustrazioni di Bruno Caruso che ne fanno un libro d’arte.
Nel 2011, con ilmiolibro del Gruppo Editoriale l’Espresso ha pubblicato un altro libro storico “Ero Balilla” ‘In Sicilia nel 1943’ in cui si parla dello sbarco degli Americani in Sicilia con particolare riferimento alla occupazione della città di Enna che era sede della sesta armata e quindi obiettivo militare privilegiato per i bombardamenti dei terribili quadrimotori delle forze anglo-americane.
Ora ritorna sulla ribellione della città di Castrogiovanni  del 1627 contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo Romano con un romanzo storico “Cosi mai visti né ‘ntisi” ‘Nella Sicilia del ‘600’ ancora con i tipi della casa editrice Lussografica di Caltanissetta  e con i pregevoli  disegni di Bruno Caruso.
Ottima l’idea di mettere all’inizio di alcuni capitoli, i versi del poemetto di Fra Gieronimo Pane e Vino che tratta, appunto, della rivolta di Castrogiovanni.
Il libro contiene una postfazione del Professore Liborio Termine che è ampiamente esaustiva e che, da sola, basterebbe a spiegare la bellezza e il senso del libro.
Il Professore Termine parlando della normalità e della tendenza dell’ennese a seppellire il ricordo della storia che considera ‘naturalità’, afferma:
“Credo che questa caratteristica spieghi la ragione per cui l’epica non si adatti all’ennese, perché non trova innesti né nel modo in cui snoda la sua vita nè nella visione che della vita egli ha. Non sorprende, dunque, se all’ennese manca un sentire romanzesco e perciò non riesce a fare dell’esistenza, delle trame stesse del suo svolgersi, “romanzo”.
Non mi sembra davvero un caso che sia proprio Savarese a darne ampia dimostrazione: lui che, avendo assunto ciò che è propriamente ennese come natura narrativa, non è mai riuscito a farne un vero romanzo.
AMARADIO CI RIESCE, IL ROMANZO LO FA. E ci riesce proprio perché, preso il “fatto”, non lo abbandona un momento. Lo assume come struttura primaria, “fonte” che punteggia lo svolgimento narrativo e, allo stesso modo, “fonte” dell’invenzione romanzesca che non vi è mai esterna né vi si sovrappone. Si  istituisce così un’architettura che ha qualcosa di eccentrico e di intrigante, e che a me, ennese, siciliano, risulta molto familiare”.
“La struttura, continua il Professore Termine, molto  mi ricorda i quadri del cartellone del cantastorie ciascuno dei quali si apre al “cunto”, che nella voce e nel corpo del cantastorie si fa narrazione e drammatizzazione. Allo stesso modo, appunto, in cui, nel testo di Amaradio, il reperto storico, il documento che dà certezza del fatto, nel suo fare da “introduzione”, diventa via via sipario e scenografia che scopre e anima lo svolgimento romanzesco a cui è sostanza l’uomo, il suo sentire, il suo patire”
Detto questo voglio subito entrare nel cuore del libro che, parlandoci della rivolta di Castrogiovanni  contro il Vescovo di Catania Innocenzo Massimo R omano, ci descrive la società siciliana del seicento che vive sotto il terrore della doppia inquisizione della Chiesa e del Governo spagnolo. Il quadro che ne viene fuori è desolante e drammatico e fa impallidire la narrazione manzoniana che descrive una società lombarda ingiusta, oppressiva, mafioseggiante che, però, non ha i connotati terribili e assurdi dell’inquisizione.
Le vessazioni che subisce il popolo di Castrogiovanni sono inaudite e il Vescovo, con la scusa di voler raddrizzare i costumi della popolazione, in ossequio al Concilio di Trento, impone nuovi balzelli che la gente non può sopportare per cui è costretta alla ribellione che scoppia nell’anno 1627.
Lo stesso prelato Don Cesare afferma a tal proposito: “Certo bisogna pur riconoscere che la responsabilità di quanto stava accadendo era del Vescovo e del suo Assessore Fiscale. Costoro avevano perseguito il loro scopo di procacciarsi del denaro a tutti i costi e a scapito della povera gente. Era come se avessero voluto estrarre altro succo da un limone spremuto”.
Le accuse che venivano mosse agli abitanti di Castrogiovanni  erano di concubinaggio, di avere rapporti sessuali prematrimoniali, di convivenze illegittime, di figli avuti fuori dal matrimonio e di altre irregolarità che, in quel tempo, erano normali e accettate da tutti. Il Concilio di Trento aveva proibito tutte queste illegittimità e il Vescovo, forte della Controriforma, aveva sanzionato i cattivi costumi con ammende esose che dovevano servire a rimpinguare le casse della Curia. E’ da dire che, ancora oggi, il concilio di Trento tenta di far valere le proprie antiche ragioni.
Nella vicenda si inserivano anche le lotte fratricide dei baroni e nobili del tempo per la conquista del potere, i soprusi dei potentati locali, le condizioni di vita miserevoli della gran massa della popolazione.
Per descrivere la società del tempo ci soccorre ancora Don Cesare che afferma:
“…che i tempi erano cambiati, che ormai non c’era alcun ordine sociale, né educazione e rispetto reciproco, che tutti si trovavano esposti alle angherie dei più forti…”
“….La Sicilia, forse per la sua posizione al centro del Mediterraneo, era sostanzialmente indifesa per cui periodicamente era stata invasa dal potente di turno. I vari dominatori il più delle volte avevano sfruttato le sue ricchezze e non si erano interessati di altro. Anzi l’avevano abbandonata al suo destino nelle mani dei piccoli potentati locali.
Costoro, in eterna lotta tra di loro, nel vano tentativo di prevalere uno sull’altro, non erano mai riusciti a liberarsi dagli stranieri. Spesso avevano chiamato i n loro aiuto un altro straniero che immancabilmente era diventato il nuovo dominatore.
La più grave conseguenza di tutto ciò era stata la carenza di un potere centrale che avesse potuto efficacemente governare. Così era rimasta in vigore solo la legge del più forte e il pesce più grande aveva mangiato sempre il pesce più piccolo.
Per avere un minimo di giustizia e protezione si era dovuti sottomettere al vicino più forte che, a sua volta, aveva messo in atto angherie ancora più pesanti. L’ordine e la giustizia erano diventati parole vacue e la convivenza sociale era andata allo sfascio.
Questa volta era venuto un Vescovo ad angariare la povera gente. Domani sarebbe potuto venire magari un nobile, come questo Barone Petroso. E poi chi sa altro”.
Do Cesare, dopo avere ricordato la ribellione, che aveva cercato di fermare, “confessò che in cuor suo l’aveva approvata. Aveva giustificato l’ira del popolo che aveva subìto oltre alle angherie del Vescovo anche  i soprusi della sua corte. Non si potevano e non si dovevano più accettare passivamente le ingiustizie altrui. Bisognava lottare con tutti i mezzi perché si garantisse l’ordine anche in questa terra martoriata”.
Intanto il popolo, spinto anche da alcuni notabili che avevano interesse a cambiare l’ordine costituito, si ribella e costringe a fuggire da Castrogiovanni il Vescovo che ivi si trovava in visita pastorale saccheggiando palazzi e le prigioni da cui furono fatti uscire i carcerati.
La reazione fu violenta. Viene inflitta la scomunica e viene mandato a Castrogiovanni il giudice Antonio Costa che, con la sua ferocia, attrezza la camera di tortura e manda in carcere nobili e popolani i quali ultimi vengono duramente condannati mentre i nobili escono dalle patrie galere pagando qualche multa.
Alla fine il nuovo Vicerè Francesco Fernandez de la Cueva concede la grazia ai condannati, viene ritirata la scomunica e a Castrogiovanni ritorna la pace una pace armata per evitare altre questioni che si vedono all’orizzonte. Si vis pacem, para bellum.
Questa è la nervatura principale del libro che però è molto ricco, complesso, e riesce in maniera pregevole a dare la dimensione del secolo terribile che è il seicento della controriforma e dell’inquisizione. La narrazione si svolge a incastro ed è una composizione di storie che potrebbero vivere ognuna a se stante ed essere oggetto di  racconti lunghi.
L’uccisione del tenente Remirez occupa lo spazio di un vero e proprio romanzo autonomo da cui viene fuori uno spaccato di quella società dominata dall’usura, dalla corruzione, da rapporti di uomini del potere con donne di ogni tipo, da vendette, da intrighi, da una giustizia sommaria capace di fare morire nelle patrie galere persone che nulla avevano fatto di illegale.
Il Capitano Filippo Trifirò conduce le indagini e fa una lista di sospettati che avrebbero potuto avere interessi a uccidere il tenente e tra questi c’è Turiddu Trebastoni, la cui madre era l’amante del Tenente, Marino Giacona usuraio, Gigino Zappalà, don Giuseppe Ribera la cui donna era stata importunata dal Tenente, Matteo Filino che viene arrestato, che confessa il delitto per poi ritrattare. Matteo, forse innocente, viene lasciato nel castello di Castrogiovanni dove si suicida, senza che nessuno conoscerà mai la verità sula morte del Tenente Ramirez.
Un altro capitolo del romanzo è la storia di Agata e dell’amore di Gilberto per questa delicata fanciulla.
La storia è veramente drammatica e lo scrittore Amaradio ci riserva tante sorprese e colpi di scena che mi ha riportato alla fantasia sfrenata di Camilleri che inventa situazioni impensabili.
Le pagine sull’amore di Gilberto per Agata sono certamente le più toccanti del libro e la fine della ragazza è quella che si addice alla società del XVII secolo in cui sarebbe stato inconcepibile che un nobile potesse sposare una popolana e questo anche se i nobili, in fondo, erano peggiori degli altri.
Don Filadelfio sostiene che “Un gentiluomo era tale se aveva una moglie e dei figli legittimi e una o più mantenute con dei figli illegittimi, che aveva adeguati e consistenti debiti, principalmente di gioco; che aveva  o aveva avuto parecchi procedimenti giudiziari e in particolare una causa di divisione ereditaria o , comunque, civile della durata di almeno un ventennio”.
Agata fa un figlio con il suo promesso sposo, che muore prematuramente. Per questo suo peccato viene incarcerata e liberata da Don Federico che le dà ospitalità nella sua casa dove il figlio di Don Federico se ne innamora senza che questi abbia la forza di manifestare il proprio amore. Poi Agata torna alla sua famiglia e subisce tante amare vicissitudini che la portano alla morte, dopo che Gilberto le manifesta il proprio amore  che era ricambiato in silenzio dalla povera Agata.
Io sono certo che gli attenti lettori del libro sapranno cogliere la bellezza di queste pagine manzoniane che ci rivelano uno scrittore attento, consumato nell’arte dello scrivere, smaliziato, che sa usare anche la tecnica del giallo per tenere appeso il lettore al libro e ai fatti narrati di cui vuole conoscere la conclusione.
Ho letto gli altri libri di Amaradio che ho anche recensito positivamente ma questo lavoro lo consacra scrittore a tutto tondo anche perché, come ha scritto, il Professore Termine, Amaradio ha dato alla città di Enna il suo libro.  Un libro aggiungo io che ridà alla città di Enna la sua dimensione ‘epica’ e il senso della ribellione che ha radici profonde nel suo Euno che seppe ribellarsi all’occupazione dei romani.
E poi è da aggiungere che il libro è frutto di una ricerca storica attenta e meticolosa che ha portato l’autore fino ai segreti archivi del Vaticano e agli archivi provinciali e regionali della Sicilia per attingere notizie sul Vescovo Innocenzo Massimo Romano e su quella rivolta di popolo che dà senso e dignità a un popolo che trova la sua ragion d’essere nella storia antica e recente, appunto in Euno e in coloro che hanno assaltato il Castello per cambiare la loro vita e liberare i loro prigionieri, anche se in Sicilia i processi di cambiamento durano secoli.
L’assalto alla Bastiglia, che ha dietro l’illuminismo, è più conosciuto ed è diventato simbolo della nuova era borghese, l’assalto al Castello di Enna, meno noto, assurge a simbolo di riscatto, a simbolo della dignità di un popolo che il libro epico di Amaradio  vuole valorizzare e considerare nel suo giusto valore simbolico.
E infine ritornando alla forma di cui parla Liborio Termine a cui la struttura del libro ricorda i cartelloni dei cantastorie io aggiungerei che il libro contiene in esso tanti soggetti teatrali o cinematografici. Si può trarre un’opera cinematografica dalla storia della rivolta, un altro film può essere tratto dalla storia di Agata e  Gilberto, che ha qualche tratto in comune con la storia di Renzo e Lucia soprattutto per la cornice storica in cui i due avvenimenti si sono consumati. Un giallo potrebbe essere tratto dalla storia dell’uccisione del tenente e dalle indagini per scoprire l’assassino.
Per le scene ha provveduto lo stesso Amaradio che, in certi momenti, raggiunge livelli eccezionali.
L’incipit del libro ha sapore sciasciano ed è una vera e propria scena da film: “Angilo arrancava dietro le due mule che, sovraccariche di paglia, s’inerpicavano lungo il rapido sentiero della Scalazza. Questo era una scorciatoia che portava al paese molto più rapidamente della trazzera che scorreva sinuosa sui fianchi del monte.
Le cicale, che sino a qualche ora addietro con il loro stridio avevano assordato le sue orecchie, ora tacevano. Il sole andava tramontando dietro le colline e indorava la massiccia mole tufacea della montagna.
Di tanto intanto, allorchè egli non riusciva a tenere il passo delle mule per lo spossamento accumulato in una giornata di duro lavoro, si appendeva alla coda di una di esse e si faceva tirare nella salita. Ma appena si accorgeva che la mula cominciava ad affaticarsi eccessivamente, lasciava la presa e ricominciava a seguirla stancamente, cercando di non farsi distanziare.
Spesso si girava a guardare se suo fratello Mariano, che seguiva con altre due mule altrettanto cariche, tenesse il suo passo. Con una grossa vociata, lo richiamava a non restare troppo indietro”.
Un regista che volesse fare un film troverebbe la scena bella e descritta da uno scrittore che diventa pittore; e di questi quadri è pieno il bellissimo libro di Eugenio Amaradio che merita una platea nazionale.
Chiuppano, lì 24.8.2015
Gaspare Agnello


"Cosi mai visti ..." sarà presentato ad Enna il prossimo 20 novembre alle ore 17,30

Il prossimo Venerdì 20 Novembre, alle ore 17,30, il libro "Così mai visti né 'ntisi nella Sicilia del '600" sarà presentato ad Enna, ad iniziativa di tutti i Club Service della Città e di parecchie altre associazioni culturali, con una manifestazione pubblica che sarà tenuta presso la Sala Cerere di Palazzo Chiaramonte del Comune di Enna.